I cocktail non sono più soltanto “bevande stimolanti composte da superalcolici di vario tipo, zucchero, acqua e amari”, come recitava nel
1806 la definizione ufficiale della Balance and Columbian Repository. Ormai sono entrati a far parte della nostra cultura e della nostra società. Saperli creare, riconoscere, gustare, interpretare: è l’obiettivo di questo piccolo libro irresistibile, nato dalla felice penna del maggiore esperto del settore, titolare di una rubrica fissa sul Corriere della Sera. I trenta drink che tutti dovrebbero conoscere, tra storia e leggenda, ingredienti giusti e “sbagliati”, insidie e passioni.
Estratto dal testo
Tutto comincia, dicono, dalla birra. Cereali, soprattutto orzo: una volta bagnati, sotto l’azione dei lieviti, fermentano. I primi rimasugli di queste brodaglie di chicchi fermentati sono state trovate in Iran, e risalgono a 7000 anni fa. Per capirsi: la scrittura sarebbe nata circa 2000 anni dopo, e con lei la storia. Per arrivare a Omero, mancano ancora 4000 anni. L’uomo apprezza il gusto e gli effetti della proto-birra, e presto scopre che gusti diversi (ed effetti simili) si possono produrre con quasi tutta la frutta.
Con l’uva, certo. Greci e poi romani snobberanno la barbarica birra: loro sono bevitori, anzi, poeti del vino. Poi, circa 800 anni dopo Cristo, l’arabo Jabir ibn Hayyan perfeziona la distillazione e nasce un’altra storia. L’alcol distillato si diffonde prima come farmaco. Cosa che nella storia del bere è una costante. L’alcol è uno degli ingredienti prediletti della Scuola di Salerno e dei suoi dottori che ne apprezzano la capacità di estrarre da piante, frutti e cortecce i principi attivi. Medicamentosi e, guarda la fatalità, spesso ottimi da bere: la voce si sparge. In Italia, tra i primi distillati allegramente privi di uso medico, la grappa. La prima volta che se ne parla è nel documento di un notaio di Cividale, a metà del 1400.
(dall’Introduzione)